Francesco Guccini letras canciones Testi 1990-2006

Discografía 1990-2006

Quello che non (1990)
Parnassius Guccini (1993)
D’amore di morte e di altre sciocchezze (1996)
Guccini live collection Doppio live (1998) Recopilatorio en vivo
Stagioni (2000)
Ritratti (2004)

Quello che non 1990

Quello che non… [4’29»]
Canzone delle domande consuete [3’32»]
Canzone per Anna [7’16»]
Ballando con una sconosciuta [6’36»]
Le ragazze della notte [5’14»]
Tango per due [5’28»]
Cencio [7’20»]
Æmilia [4’30»]

Quello che non…

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La vedi nel cielo quell’alta pressione? La senti una strana stagione?
Ma a notte la nebbia ti dice d’un fiato che il Dio dell’inverno è arrivato.
Lo senti un aereo che porta lontano? Lo senti quel suono di un piano,
di un Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova?
Lo senti il perché di cortili bagnati, di auto a morire nei prati,
la pallida linea di vecchie ferite, di lettere ormai non spedite?
Lo vedi il rumore di favole spente? Lo sai che non siamo più niente?
Non siamo un aereo né un piano stonato, stagione, cortile od un prato.
Conosci l’odore di strade deserte che portano a vecchie scoperte,
a nafta, telai, ciminiere corrose, a periferie misteriose,
a rotaie implacabili per nessun dove, a letti, a brandine, ad alcove?
Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili di un’ex terza classe,
l’angoscia che dà una pianura infinita? Hai voglia di me e della vita,
di un giorno qualunque, di una sponda brulla? Lo sai che non siamo più nulla?
Non siamo una strada né malinconia, un treno o una periferia,
non siamo scoperta né sponda sfiorita, non siamo né un giorno né vita.
Non siamo la polvere di un angolo tetro né un sasso tirato in un vetro,
lo schiocco del sole in un campo di grano, non siamo, non siamo, non siamo.
Si fa a strisce il cielo e quell’alta pressione è un film di seconda visione,
è l’urlo di sempre che dice pian piano: «Non siamo, non siamo, non siamo.»

Canzone delle domande consuete    

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Ancora qui a domandarsi e a far finta di niente come se il tempo per noi non costasse l’uguale,
come se il tempo passato ed il tempo presente non avessero stessa amarezza di sale.
Tu non sai le domande, ma non risponderei per non strascinare parole in linguaggio d’azzardo;
eri bella, lo so, e che bella che sei; dicon tanto un silenzio e uno sguardo.
Se ci sono non so cosa sono e se vuoi, quel che sono o sarei, quel che sarò domani…
non parlare non dire più niente se puoi, lascia farlo ai tuoi occhi, alle mani.
Non andare… vai! Non restare… stai! Non parlare… parlami di te!
Tu lo sai, io lo so, quanto vanno disperse, trascinate dai giorni come piena di fiume
tante cose sembrate e credute diverse come un prato coperto a bitume.
Rimanere così, annaspare nel niente, custodire i ricordi, carezzare le età;
è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente del diritto alla felicità?
Se ci sei, cosa sei? Cosa pensi e perché? Non lo so, non lo sai; siamo qui o lontani?
Esser tutto, un momento, ma dentro di te. Aver tutto, ma non il domani.
Non andare… vai! Non restare… stai! Non parlare… parlami di te!
E siamo qui, spogli, in questa stagione che unisce tutto ciò che sta fermo, tutto ciò che si muove;
non so dire se nasce un periodo o finisce, se dal cielo ora piove o non piove.
Pronto a dire: «Buongiorno», a rispondere: «Bene», a sorridere a «Salve!», dire anch’io: «Come va?»
Non c’è vento stasera. Siamo o non siamo assieme? Fuori c’è ancora una città?
Se c’è ancora balliamoci dentro stasera, con gli amici cantiamo una nuova canzone…
Tanti anni, e sono qui ad aspettar primavera, tanti anni, ed ancora in pallone.
Non andare… vai! Non restare… stai! Non parlare… parlami di te!
Non andare… vai! Non restare… stai! Non parlare… parlami di noi!

Canzone per Anna

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La luce incerta della sera getta fantasmi ed ombre sulla tua finestra:
non pensi, o non vorresti più pensare.
Bambina in fiore con sorrisi ambigui che lungo i colli si faranno cupi,
rincasano veloci per mangiare.
E tu hai già conosciuto questo gioco, non sai più com’era in quel passato,
non sai se sorridere od urlare.
Non sei più bella come un tempo quando cercò il tuo corpo quello di un compagno,
dimmi se fu paura o fu piacere.
Ma adesso senti il tempo che ti abbraccia come un qualcosa che ti segna in faccia,
che non si vede, ma che sai d’avere.
È come quel male a cui non si da il nome, un’ossessione circolare
fra la volontà ed il non potere.
Brandelli di canzoni, frasi e televisioni parlano dalle finestre aperte,
in un telegiornale qualcuno il bene o il male denuncia, auspica, avverte,
frasi del quotidiano ti sfiorano pian piano ed entrano senza toccarti,
si infilano negli angoli della tua casa: suoni che non sai.
Un uomo in cannotiera dietro ad una ringhiera innaffia i fiori cittadini;
un grido, un pianto acuto, già spento in un minuto, segnalano tragedie di bambini,
odori di frittate, minestre riscaldate combattono lo smog di un diesel,
un fuoristrada assurdo che romba per partire e non va mai.
E tu sei sola, sola, sola, sola, ti senti sola, sola, sola, sola,
e pensi a un figlio temuto, che ora non hai.
Ma dura un attimo quel tuo pensiero, atomo incerto in mezzo al falso e al vero,
per lasciar posto ai giorni che vivrai.
Niente «se» e «forse», fra le occasioni avute e perse, restano solo ore scomparse,
di certo hai solo quello che farai.
La luce incerta della sera fonde col buio ch’entra, presto si confonde
tutto come a chi guarda senza un fuoco.
La luce accende in viso, si disegna forse un sorriso che le labbra spiega
come se fosse stato tutto un gioco.
Fa niente. Danno in TV un programma intelligente,
ci vuole un te aromatico e bollente poiché il sonno arrivi a poco a poco.

Ballando con una sconosciuta

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Con gesti da gatto infilava sui tetti le antenne,
in alto d’estate sui grattacieli della periferia
come un angelo libero, in bilico sulla città.
«Non c’è solo il vento, – diceva – anche la luce può portarti via,
se hai tempo da perdere e dentro la giusta elettricità,
e se da sempre ti aspetti un miracolo.»
Captare è un mestiere difficile in questa città,
nel cielo ricevere, trasmettere e poi immaginarsi qualunque cosa,
per ferire il silenzio che tutti hanno dentro di sé.
Ma lui credeva nelle ferite e si sfiorava,
si toccava nel cuore con la mano nervosa,
guardando le nuvole correre via impazienti da lì,
da quel tetto sospeso sugli uomini.
Finché un giorno un’antenna ribelle ai programmi di quiz
fece sparire le strisce e nel cielo trasmise l’immagine della madonna,
una donna normale, non male, che disse così:
«Io spengo la luce, se vuole io posso fare una musica più forte del vento,
posso anche uscire dal monitor, dalla gravità, potremmo ballare anche subito
se lei non ha fretta e non vuole tornare laggiù.»
E noi siamo sempre veloci a cambiare canale,
ma coi piedi piantati per terra, guardando la vita con aria distratta,
senza entrare nel campo magnetico della felicità;
felicità che sappiamo soltanto guardare, aspettare, cercare già fatta,
quasi fosse anagramma perfetto di facilità, barando su un’unica lettera.
Conoscevo quell’uomo e per questo racconto di lui.
È sparito da allora e nessuno ha scoperto dov’è,
ma un dubbio, un sospetto od un sogno io almeno ce l’ho:
provate a passare in una sera d’estate vicino ai grattacieli di periferia,
provate a sentire, captare, trasmettere e poi raccontare qualcosa;
se allora sentite una musica son loro che ballano in bilico sulla città.

Le ragazze della notte

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Che cosa cercano le ragazze della notte, trucco e toilettes che si spampànano piano
come il ghiaccio va in acqua dentro al tumbler squagliandosi col caldo della mano,
e frugano con gli occhi per vedere un viso o un’ombra nell’oscurità
o per trovare qualcuno a cui ripetere le frasi solite di quell’umanità.
Ma chi aspettano le ragazze della notte in quei bar zuppi di alcolici e fiati,
di uomini vocianti che strascinano pacchi di soldi forse male guadagnati,
le vedi appendersi adoranti e innaturali a quei califfi cui io non darei una lira;
chissà se sognano vite più normali mentre la notte gira, gira, gira.
E si mettono a cantare un po’ stonate quando qualcuno va a picchiare un piano,
canzoni vecchie, storie disperate, gli amori in rima di un tempo già lontano
e si immedesimano in quelle parole scritte per altre tanto tempo fa,
«bella senz’anima», «quando tramonta il sole», «suona un’armonica», «ne me quitte pas».
Cosa dicono le ragazze della notte a quei baristi ruffiani e discreti
che si chinano preteschi sul bancone per confessare chissà quali segreti
e poi guardano in controluce un bicchiere e agili danzano versando un liquore;
quanto da dire, e quanto c’è da bere mentre la notte macina le ore.
Oh, come amo le ragazze della notte così simili a me, cosi diverse,
noi passeggeri di treni paralleli, piccoli eroi delle occasioni perse,
anche se so che non ci incontreremo ma solamente ci guardiamo passare,
anche se so che mai noi ci ameremo con il rimpianto di non poterci amare.
Finché anche dai vetri affumicati spinge la luce ed entra all’improvviso
e autobus gonfi di sonni arretrati passano ottusi nel mattino intriso
di edicole che espongono i giornali pieni di fatti che sappiamo già,
di cappucci e brioche e dei normali rumori che ha al mattino una città.
Ma dove vanno le ragazze della notte che all’alba fuggono, complice un tassì,
stanche di tanto, piene del rimorso d’avere forse detto troppi sì,
ma lo scacciano presto ed entra in loro solo un filo di spossatezza leggera,
che le accompagnerà lungo il lavoro, che condurrà diritto fino a sera.
Ma chi sono le ragazze della notte?

Tango per due

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Coppia che sta silenziosa, un po’ rigida e in posa, a ballare, una sera:
la vita è solo una cosa rimasta indietro: non c’è più ma c’era;
composta e indomenicata, eleganza sfuocata raggiunta a fatica;
l’oggi ha cambiato facciata, ma di quell’ieri passato io so
che tante ne potreste raccontare, e il ricordo stempera e non guasta,
quante cose e facce da narrare che come si dice un romanzo non basta,
nate con un rapido: «a domani», continuate in giorni di «sì» e «no»,
lampi sotto cieli suburbani e raffica il tango che vi presentò.
Lui biella, stantuffo, leva, muscoli, grinta, officina, sole, lei…
lei quiete, chitarra, vela, segreti, donna, calore, viole;
lui bar, alcool, nicotina, capelli indietro, cravatta, bici, lei…
lei ràion, lei signorina, la permanente coi ricci.
Coppia di fronte a bianchino, anonimo vino frizzante anidride:
la vita: che buffa cosa, ma se lo dici nessuno ride.
Coppia legata dai giorni, partenze e ritorni, fortezza e catena,
datemi i vostri ricordi, ditemi che ne valeva la pena.
Ora le luci son spente, sta uscendo la gente, saluti e rumore,
ditemi che avete in mente, come una volta, di fare l’amore,
quello che è stato un segreto di un prato o di un greto, del buio di un viale,
quel gioco ardente e discreto, d’allora sempre diverso ed uguale…
chi lo sa se ciò che è da cercare, ciò che non sai mai se vuoi o non vuoi,
sia così banale da trovare, sia lungo ogni strada, sia a fianco di noi,
perso in tante scatole di odori, angoli e tendine che non so,
impronte di paesaggi e di colori, manciata di un tango che vi accompagnò.
Lui biella, stantuffo, leva, muscoli, grinta, officina, sole, lei…
lei quiete, chitarra, vela, segreti, donna, calore, viole;
lui bar, alcool, nicotina, capelli indietro, cravatta, bici, lei…
lei ràion, lei signorina, lei… lei…

Cencio

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Ci sarà forse ancora, appesa in qualche angolo,
o a macchiare di ricordi un muro dell’Associazione Bocciofila Modenese,
fra mucchi di coppe e trofei, vinti in tornei ogni volta «del secolo»
(glorie oscure di eroi dell’a-punto, del volo, delle bocciate secche e tese)
quella foto sul pallaio, presa una sera di quasi estate,
con me e Cencio vicini, fintamente assorti a guardare il punto,
perché l’umorismo popolare volle immortalare assieme me, il Gigante,
e Cencio il Nano, viso già d’uomo serio, compreso, quasi compunto.
Non so come sia capitato in mezzo a noi, confuso branco adolescente di un periodo oscuro,
di amori e di domande che gonfiavano
la testa e i fianchi a ondate sofferte ma cercate e poi
quei raspare fra sottovesti in nailon, rubando al buio quel po’ di rubabile,
scoprire e esser scoperti, coraggiosi ed incerti
e dopo in branco raccontarsi e tutti a turno ad ascoltarsi ma lui…
Eh, lui non aveva un amore da dire, no, lui non aveva una storia,
solo crearsi avventure di cosce e di seni che poi ci sparava a brutto muso
e noi lì ad ascoltarlo sorridendo, senza razzismo né boria,
ma senza capire ciò che voleva essere anche lui, solo un normale adolescente ottuso.
Eppure usava lo stesso barbaro gergo e gli stessi jeans consumati;
e amava gli stessi film di bossoli e marines lungo i mari giapponesi,
parlava di rock e fumetti, e non perdeva i cartoni animati,
e come noi guardava esplodere il mondo con gli stessi occhi attenti, spauriti, sorpresi.
Ma cosa pensava lontano da noi, cosa sognava quand’era da solo?
Con le stesse voglie e con gli stessi eroi, ma ali più piccole per lo stesso volo.
Forse sognava anche troppo e davvero, certo in quel branco si sentiva perso.
Dove scappare per sentirsi vero, dove fuggire per non essere diverso?
E sognò il circo, realtà capovolta, mondo di uguali perché tutti strani,
la nostra solita realtà stravolta, quello Eden senza giganti o nani.
«Cencio è scappato via, ma l’han già beccato!» Dopo due giorni era già ritornato.
Ma il tempo più ottuso di noi incalza per tutti, sia per i giganti che i nani.
Chi immaginava allora che ognuno sarebbe finito in un proprio circo personale?
Vincenti o perdenti non importa, ma quasi mai secondo i propri piani,
con la faccia tinta, sul trapezio, fra i leoni, solo attenti a non farsi troppo male.
Qualcuno m’ha detto che vivi in provincia, con una ballerina bulgara o rumena;
chissà se hai poi trovato di dentro la tua vera altezza?
Addio amico venuto dal passato per un momento appena,
addio giorni andati in un soffio, amici mai più incontrati; s’ciao, giovinezza.

Æmilia

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Le Alpi, si sa, sono un muro di sasso, una diga confusa, fanno tabula rasa
di noi che qui sotto, lontano, più in basso, abbiamo la casa;
la casa ed i piedi in questa spianata di sole che strozza la gola alle rane,
di nebbia compatta, scabrosa, stirata che sembra di pane,
ed una strada antica come l’uomo marcata ai bordi dalla fantasie di un duomo
e fiumi, falsi avventurieri che trasformano i padani in marinai non veri.
Emilia sdraiata fra i campi e sui prati, lagune e piroghe delle terramare,
guerrieri del Nord dai capelli gessati, ne hai visti passare!
Emilia allungata fra l’olmo e il vigneto, voltata a cercare quel mare mancante
e il monte Appennino rivela il segreto e diventa un gigante.
Lungo la strada tra una piazza e un duomo hai messo al mondo questa specie d’uomo:
vero, aperto, finto, strano, chiuso, anarchico, verdiano… brutta razza,l’emiliano!
Emilia sognante fra l’oggi e il domani, di cibo e motori, di lusso e balere;
Emilia di facce, di grida, di mani, sarà un grande piacere
vedere in futuro, da un mondo lontano quaggiù sulla terra una macchia di verde
e sentire il mio cuore che batte più piano e là dentro si perde…
Passeggia un cane e abbaia al vento un uomo…
Ora ti saluto, è quasi sera, si fa tardi, si va a vivere o a dormire da Las Vegas a Piacenza,
fari per chilometri ti accecano testardi ma io sento che hai pazienza, dovrai ancora sopportarci.

Parnassius Guccini 1993

Canzone per Silvia [5’04»]
Acque [6’40»]
Samantha [5’22»]
Farewell [5’16»]
Nostra Signora dell’Ipocrisia [4’23»]
Dovevo fare del cinema [4’28»]
Non bisognerebbe [3’52»]
Luna fortuna [3’51»]
Parole [6’12»]

Canzone per Silvia

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Il cielo dell’America son mille cieli sopra a un continente;
il cielo della Florida è uno straccio che è bagnato di celeste,
ma il cielo là in prigione non è cielo: è un qualche cosa che riveste
il giorno e il giorno dopo e un altro ancora sempre dello stesso niente.
E fuori c’è una strada all’infinito, lunga come la speranza,
e attorno c’è un villaggio sfilacciato, motel, chiese, case, aiuole,
paludi dove un tempo ormai lontano dominava il Seminole,
ma attorno alla prigione c’è un deserto dove spesso il vento danza.
Son tanti gli anni fatti, e tanti in più che sono ancora da passare,
in giorni e giorni e giorni che fan mesi, che fan anni ed anni amari;
a Silvia là in prigione cosa resta? Non le resta che guardare
l’America negli occhi, sorridendo coi suoi limpidi occhi chiari.
Già, l’America è grandiosa ed è potente, tutto e niente, il bene e il male,
città coi grattacieli e con gli slum e nostalgia di un grande ieri,
tecnologia avanzata e all’orizzonte l’orizzonte dei pionieri,
ma a volte l’orizzonte ha solamente una prigione federale.
L’America è una statua che ti accoglie e simboleggia, bianca e pura,
la libertà, e dall’alto fiera abbraccia tutta quanta la Nazione,
per Silvia questa statua simboleggia solamente la prigione
perché di questa piccola italiana ora l’America ha paura.
Paura del diverso e del contrario, di chi lotta per cambiare,
paura delle idee di gente libera, che soffre, sbaglia e spera.
Nazione di bigotti! Ora vi chiedo di lasciarla ritornare,
perché non è possibile rinchiudere le idee in una galera.
Il cielo dell’America son mille cieli sopra a un continente
ma il cielo là rinchiusi è solo un dubbio o un’intuizione;
mi chiedo se ci sono idee per cui valga restare là in prigione,
e Silvia non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente.
Mi chiedo cosa pensi alla mattina nel trovarsi il sole accanto,
o come fa a scacciare fra quei muri la sua grande nostalgia,
o quando un acquazzone all’improvviso spezza la monotonia,
mi chiedo cosa faccia adesso Silvia mentre io qui piano la canto.
Mi chiedo ma non riesco a immaginarlo: penso a questa donna forte
che ancora lotta e spera perché sa che adesso non sarà più sola.
La vedo con la sua maglietta addosso, con su scritte le parole,
che sempre l’ignoranza fa paura, ed il silenzio è uguale a morte.

Acque

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L’acqua che passa fra il fango di certi canali,
tra ratti sapienti e pneumatici e ruggine e vetri,
chissà se è la stessa lucente di sole o fanali
che guardo oleosa passare rinchiusa in tre metri.
Si può stare ore a cercare se c’è in qualche fosso
quell’acqua bevuta di sete o che lava te stesso,
o se c’è nel suo correre un segno od un suo filo rosso
che leghi un qualcosa a qualcosa, un pensiero a un riflesso.
Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest’aria bassa;
ottusa e indifferente cammina e corre via, lascia una scia e non gliene frega niente.
E cade su me che la prendo e la sento filtrare,
leggera infeltrisce i vestiti e intristisce i giardini,
portandomi odore d’ozono, giocando a danzare,
proietta ricordi sfiniti di vecchi bambini;
colpendo implacabile il tetto di lunghi vagoni,
destando annoiato interesse negli occhi di un gatto,
coprendo col proprio scrosciare lo spacco dei tuoni
che restano appesi un momento nel cielo distratto.
E l’acqua passa e gira e colora e poi stinge, cos’è che mi respinge e che m’attira?
Acqua come sudore, acqua fetida e chiara, amara, senza gusto né colore.
Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest’aria bassa;
ottusa e indifferente cammina e corre via, lascia una scia e non gliene frega niente.
E mormora e urla, sussurra, ti parla, ti schianta,
evapora in nuvole cupe rigonfie di nero
e cade e rimbalza e si muta in persona od in pianta,
diventa di terra, di vento, di sangue e pensiero.
Ma a volte vorresti mangiarla o sentirtici dentro,
un sasso che l’apre, che affonda e sparisce e non sente,
vorresti scavarla, afferrarla, lo senti che è il centro
di questo ingranaggio continuo, confuso e vivente.
Acque del mondo intorno, di pozzanghere e pianto, di me che canto al limite del giorno,
fra il buio e la paura del tempo e del destino, freddo assassino della notte scura.
Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest’aria bassa;
ottusa e indifferente cammina e corre via lascia una scia e non gliene frega niente.

Samantha

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Samantha scende le scale di un policentro attrezzato comunale,
trent’anni e poi l’appartamento sarà suo, o meglio, dei suoi genitori,
che ogni mese devono strappare il mutuo da uno stipendio da fame, ma Milano
è tanto grande da impazzire,
e il sole incerto becca di sguincio, in questa domenica d’aprile,
ogni pietra, ogni portone ed ogni altro ammennicolo urbanistico.
Ma Samantha saltella, non sa d’avere lunghe gambe da cervo
e il seno, come si dice, in fiore, teso, sopra a un corpo ancora acerbo
e Samantha, Samantha ancora non sa d’avere un destino da modella
e corre allegra lungo i graffiti osceni delle scale quasi donna, quasi bella.
E fuori Milano muore di malinconia, di sole che tramonta là in periferia,
di auto del ritorno, famiglie, freni e gas di scarico.
Lontano il centro è quasi un altro mondo, San Siro un urlo che non cogli a fondo,
ti taglia un senso vago di infinito panico.
Spunta un gasometro dietro a muri neri, oziosi vagolano i tuoi pensieri
e in aria il cielo è un qualche cosa viola carico.
Andrea è giù nel cortile, jeans regolari e faccia da vinile,
giacca a vento come dio comanda e legata al polso la bandana,
un piede contro al muro e lì l’aspetta perché vuol parlarle, niente,
forse d’amore ma non sa che dire, con le parole quasi lombarde che non sanno uscire
e si accende rabbioso una Marlboro di alibi,
e si guardano di sbieco, appena un cenno istintivo di saluto,
ma a Samantha batte il cuore da morire mentre Andrea rimane muto;
e lei ritornera con le M.S. per suo padre steso davanti a qualche canale
e lui mediterà al bar dietro a una birra che la vita può far male.
E Milano sembra che stia lì a abbracciarsi quei due che non sapranno più parlarsi,
solo sfiorarsi in un momento vago e via.
Samantha presto cambierà quartiere per un destino che non sa vedere,
e Andrea diventerà padrone di una pizzeria.
Ed io, burattinaio di parole, perché mi perdo dietro a un primo sole,
perché mi prende quest’assurda nostalgia?

Farewell

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E sorridevi, e sapevi sorridere,
coi tuoi vent’anni portati così,
come si porta un maglione sformato su un paio di jeans;
come si sente la voglia di vivere
che scoppia un giorno e non spieghi il perché:
un pensiero cullato o un amore che è nato e non sai che cos’è.
Giorni lunghi tra ieri e domani, giorni strani,
giorni a chiedersi tutto cos’era, vedersi ogni sera;
ogni sera passare su a prenderti
con quel mio buffo montone orientale,
ogni sera là, a passo di danza, salire le scale
e sentire i tuoi passi che arrivano,
il ticchettare del tuo buonumore,
quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.
Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova,
era tanto potere parlarci, giocare a guardarci,
fra gli amici che ridono e suonano,
attorno ai tavoli pieni di vino,
religione del tirare tardi e aspettare mattino;
e una notte lasciasti portarti via,
solo la nebbia e noi due in sentinella,
la città addormentata non era mai stata così tanto bella.
Era facile vivere allora, ogni ora,
chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci,
e ogni notte inventarsi una fantasia,
da bravi figli dell’epoca nuova,
ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova.
Ma stupiti e felici scoprimmo che
era nato qualcosa più in fondo,
ci sembrava di avere trovato la chiave segreta del mondo.
Non fu facile volersi bene, restare assieme
o pensare d’avere un domani, restare lontani;
tutti e due a immaginarsi: «Con chi sarà?»
In ogni cosa un pensiero costante,
un ricordo lucente e durissimo, come il diamante,
e a ogni passo lasciare portarci via
da un’emozione non piena, non colta:
rivedersi era come rinascere ancora una volta.
Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione,
e il peccato fu creder speciale una storia normale.
Ora il tempo ci usura e ci stritola
in ogni giorno che passa correndo,
sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo.
E davvero non siamo più quegli eroi
pronti assieme ad affrontare ogni impresa;
siamo come due foglie aggrappate ad un ramo in attesa.
Farewell, non pensarci e perdonami
se ti ho portato via un poco d’estate
con qualcosa di fragile come le storie passate.
Forse un tempo poteva commuoverti
ma ora è inutile, credo, perché
ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me.

Nostra Signora dell’ipocrisia

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Alla fine della baldoria c’era nell’aria un silenzio strano,
Qualcuno ragliava con meno boria e qualcun altro grugniva piano;
alle sfilate degli stilisti si trasgrediva con meno allegria
ed in quei visi sazi e stravisti pulsava un’ombra di malattia.
Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva
e fra biscotti sponsorizzati videro un anchorman che piangeva.
E poi la nebbia discese a banchi ed il barometro segnò tempesta,
ci risvegliammo più vecchi e stanchi, amaro in bocca, cerchio alla testa.
Il mercoledì delle Ceneri ci confessarono bene o male
che la festa era ormai finita, ormai lontano il carnevale
e proclamarono penitenza e in giro andarono col cilicio
ruttando austeri:»Ci vuol pazienza! Siempre adelante ma con juicio!»
E fecero voti con faccia scaltra a Nostra Signora dell’ipocrisia
perché una mano lavasse l’altra, tutti colpevoli e così sia,
e minacciosi ed un po’ pregando incenso sparsero al loro Dio
sempre accusando, sempre cercando il responsabile, non certo io.
La domenica di Mezza Quaresima fu processione di etére di Stato,
dai puttanieri a diversi pollici, dai furbi del chi ha dato ha dato
ed echeggiarono tutte le sere come rintocchi schioccanti a morto,
amen, mea culpa e miserere ma neanche un cane che sia risorto
e i cavalieri di tigri a ore e i trombettieri senza ritegno
inamidarono un nuovo pudore, misero a lucido un nuovo sdegno;
si andò alle prime con casto lusso e i quiz pagarono buoni milioni
e in pubblico si linciò il riflusso per farci ridiventare buoni.
Così domenica dopo domenica fu una stagione davvero cupa,
quel lungo mese della quaresima rise la iena, ululò la lupa,
stelle comete ed altri prodigi facilitarono le conversioni,
mulini bianchi tornaron grigi, candidi agnelli certi ex-leoni.
Soltanto i pochi che si incazzarono dissero che era l’usato passo
fatto dai soliti che ci marciavano per poi rimetterlo sempre là in basso.
Poi tutto tacque, vinse ragione, si placò il cielo, si posò il mare,
solo qualcuno in resurrezione, piano, in silenzio, tornò a pensare.

Dovevo fare del cinema

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Certo, ha ragione il signore se dice che siamo in un film dell’ultimo periodo,
dove i banditi pentiti confessano se non li processano
e così fra le macchie di sangue la vita è la solita
e fa «audience» se in più c’è la scena del killer che vomita.
Sa com’è? E’ bello fare del cinema
anche se, lì da imputato, c’è qualcuno che crede di esser nel cinema muto.
È bello fare del cinema, ma piuttosto che sparare siam rimasti nascosti a guardare.
A guardare cos’è che ci aspetta alla fine del tunnel,
dei riflussi riflessi su certi pacchetti di Camel,
quando tutto è soltanto un riassunto di modi di dire,
quattro quarti di noia disposta comunque a finire;
l’inflazione però non finisce e ci rende cattivi,
non c’è niente che valga la pena e così siamo vivi.
Ma che cos’è che ci fa fare del cinema?
Forse questa depressione o l’istinto di conservazione.
Noi, si va a fare del cinema, e quando vivere è un problema rifacciamo da capo la scena.
Sì, devo dire che ha proprio ragione il signore,
c’è una crisi tremenda che investe l’intero settore;
è che il pubblico vuole si parli più semplicemente,
così chiari e precisi e banali da non dire niente.
Per capire la storia non serve un discorso più grande:
signorina cultura si spogli e dia qui le mutande.
Sa com’è, Lei deve fare del cinema,
mica roba pervertita, ma un soggetto che serva alla vita;
facciamo tutti del cinema, ma piuttosto che parlare si rimanga nascosti a pensare.
Ma il gestore di un piccolo cine di periferia
mi diceva che è tutta la vita che aspetta un’idea,
un’idea piccolina che verso il finale si evolve
nella madre di tutte le storie, l’idea che risolve;
quel soggetto che senti nell’aria e potrebbe arrivare
proprio quando hai già chiuso il locale e cambiato mestiere:
sa com’è, è bello fare del cinema, tanto sa: facciamo tutti del cinema.

Non bisognerebbe

——————————————————————————–
Non bisognerebbe mai ritornare.
Perché calcare i tuoi vecchi passi, calciare gli stessi sassi,
su strade che ti han visto già a occhi bassi?
Non troverai quell’ombra che eri tu e non avrai quell’ora in più
che hai dissipato e che ora cerchi;
si scioglierà impossibile il pensiero a rimestare il falso e il vero
in improbabili universi.
Eppure come un cane che alza il muso e annusa l’aria
batti sempre la tua pista solitaria
e faccia dopo faccia e ancora traccia dopo traccia
torni dove niente ti aprirà le braccia.
E rimpiangere, rimpiangere mai.
Come piovigginano le vecchie cose: perché fra i libri schiacciare rose
di risa paghe e piene delle spose?
E buttar via un incognita e uno scopo, trascurare il giorno dopo,
come se chiudesse sempre;
studiar la stessa pagina di storia conosciuta già a memoria,
date e luoghi impressi a mente.
Ma gocciola da sempre sul bagnato, tesoriere dei tuoi giorni,
di chi ha preso e di chi ha dato.
E ora dopo ora e dopo un attimo ed ancora la poetica consueta è «dell’allora».
Primo: Non ricordare.
Perché i ricordi sono falsati, i metri e i cambi sono mutati
per la spietata legge dei mercati.
È come equilibrarsi sugli specchi, ad ogni occhiata un po’ più vecchi,
opachi, muti e deformanti.
Frugare dentro ai soliti cassetti dove non c’è quel che ci metti
e mai le cose più importanti.
E invece come tutti sempre lì a portarli addosso,
a ricercare quel sottile straccio rosso
che lega il tempo assente ed il presente e nella mente,
tutto questo poi ci si confonderà.
Non bisognerebbe mai ricordare.

Luna fortuna

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Notte calda come tante vicino al fiume che canta,
aria piena del barlume di un lume fioco in distanza
e di lucciole sfuggenti con cui la notte si ammanta.
E si ammanta di fantasmi o di un ricordo lontano,
mentre al buio della notte che mi trascina per mano
cerco i segni delle piante che mi circondano piano.
Piano, all’ombra della notte, mi sembri fatta di fumo,
sento appena il tuo calore ed il tuo strano profumo
con l’odore del tuo corpo e in questo io mi consumo.
Ma dal monte all’improvviso spunta la bianca luna
e ogni cosa in un istante schiarisce e non è più bruna;
questa luna esagerata ci procurerà fortuna.
La fortuna di un amante è un fiore d’esile stelo,
una favola inquietante, fugace e fragile velo,
il respiro di un istante che scomparirà nel cielo.
Cielo e luce all’infinito come se fosse di giorno,
mondo magico fiorito che mi risplende d’intorno,
io ti sfoglio con le dita e indovino il tuo contorno.
Il contorno del tuo corpo ora si è fatto reale:
è qualcosa bianco e vero, bello da far quasi male,
e s’insinua in un pensiero che all’improvviso mi assale;
contro il cielo trasformato sorride un’altra luna,
ma io so qual è la vera, l’altra non è più nessuna,
questa nuova luna piena mi procurerà fortuna.

Parole

——————————————————————————–
Parole, son parole, e quante mai ne ho adoperate
e quante ancora lette e poi sentite,
a raffica, trasmesse, a mano tesa, sussurrate,
sputate, a tanti giri, riverite,
adatte alla mattina, messe in abito da sera,
all’osteria citabili o a Cortina, o a Marghera.
Con gioia di parole ci riempiamo le mascelle
e in aria le facciamo rimbalzare
e se le cento usate sono in fondo sempre quelle
non è importante poi comunicare,
è come l’uomo solo che fischietta dal terrore
e vuole nel silenzio udire un suono, far rumore.
Mio caro amore, si è un po’ come commessi viaggiatori
con campionari di parole e umori a ritmi di trecento e più al minuto;
amore muto, beati i letterari marinai
così sul taciturno e cerca guai così inventati e pieni di coraggio.
Io non son quei marinai, parole in rima ne ho già dette
(e tante, strano, ma ne faccio dire),
nostalgiche, incazzate, quanto basta maledette,
ironiche quel tanto per servire
a grattarsi un po’ la rogna, soffocati dal collare
adatto per i cani o per la gogna del giullare.
Poi andare sopra un palco per compenso o l’emozione:
chi non ha mai sognato di provare?
Sia chi ha capito tutto e tutto sa per professione
ed ha un orgasmo a scrivere o a fischiare,
sia quelli che ti adorano fedeli e senza intoppi,
coi santi non si scherza, abbasso il Milan, viva Coppi!
Amore sappi, beato chi ha le musiche importanti,
le orchestre, luci e viole sviolinanti, non queste mie di fil di ferro e spago;
amore vago, mi tocca coi miei due giri costanti
far il make-up a metonìmie erranti: che gaffe proprio all’età della ragione.
E sì son tanti gli anni, ma se guardo ancora pochi
Voltaire non ci ha insegnato ancora niente,
è questo quel periodo in cui i ruggiti si fan fiochi
oppure si ruggisce veramente,
ed io del topo sovrastrutturale me ne frego.
«Chi sia Voltaire» mi dite? va be’, dopo ve lo spiego.
E se pensate questi i vaniloqui di un anziano,
lo ammetto, ma mettiamoci d’accordo:
conosco gente pia, gente che sa guardar lontano
e alla maturità dicon sia sordo
perchè i rincoglioniti d’ogni parte odian parecchio
la libertà e la chiamano «vagiti»,
o «ostie» d’un vecchio.
Amore a specchio, è tanto bello urlare dagli schermi,
gettare a terra falsi pachidermi coprendo ad urla il vuoto ed il timore.
Qui sul mio onore, smetterei di giocar con le parole
ma è un vizio antico e poi quando ci vuole per la battuta mi farei spellare.
Eeeh, le chiacchere son tante e se ne fan continuamente,
è tanto bello dar fiato alle trombe,
o il vino o robe esotiche rimbomban nella mente,
esplodono parole come bombe,
pillacchere di fango, poesie dette sulla sedia,
ghirlande di semantica e gran tango dei mass-media.
Dibattito, in diretta, miti, spot, ex-cineforum,
talk-show, magazine, trend, poi T.V. e radio,
telegiornale, spazi, nuovo, gadget, pista, quorum,
dietrismo, le tangenti, rock e stadio,
deviati, bombe, agenti, buco e forza del destino,
scazzato, paranoia e gran minestra dello spino.
Amore fino, so che in questo modo cerco guai
ma non sopporto questi parolai: non dire più che ci son dentro anch’io,
amore mio se il gioco è essere furbo e intelligente
ti voglio presentare della gente e certamente presto capirai.
Ci sono, sai, nascosti dietro a pieghe di risate
che tiran giù i palazzi dei coglioni,
più sobri e più discreti e che fan meno puttanate
di me che scrivo in rima le canzoni,
i clown senza illusione, fucilati ad ogni muro,
se stan così le cose dei buffoni sia il futuro.
Son quelli che distinguono parole da parole
e sanno sceglier fra Mercuzio e Mina,
che fanno i giocolieri fra le verità e le mode,
i Franti che sghignazzano a dottrina,
che irridono ai proverbi e berceran disincantati:
«Fra Mina e fra Mercuzio son parole, e non son frati». DiscografiaConcertiLinkFotoSondaggiCanzoniAltroFolk beat N.1Due anni dopoL’isola non trovataRadiciOpera buffaStanze di vita quotidianaVia Paolo Fabbri 43AmerigoAlbum concertoMetropolisGucciniFra la via Emilia e il westSignora Bovary…quasi come Dumas…Quello che non…Parnassius GucciniiD’amore di morte e di altre sciocchezzeGuccini live collectionStagioniRitrattiPagina 1Pagina 2Il migliore albumVoti agli albumOrdine di durataOrdine alfabeticoPrima paginaCuriositàCitazioniConsigliMIDIRed GolpeRaccontiScrivimiProva

D´amore di morte e di altre sciocchezze ,1996

Lettera [4’22»]
Vorrei [5’20»]
Quattro stracci [4’10»]
Stelle [5’42»]
Canzone delle colombe e del fiore [4’44»]
Il caduto [5’36»]
Cirano [6’40»]
Il matto [2’58»]
I fichi [9’55»]

Lettera

——————————————————————————–
In giardino il ciliegio è fiorito agli scoppi del nuovo sole,
il quartiere si è presto riempito di neve di pioppi e di parole.
All’una in punto si sente il suono acciottolante che fanno i piatti,
le TV sono un rombo di tuono per l’indifferenza scostante dei gatti;
come vedi tutto è normale in questa inutile sarabanda
ma nell’intreccio di vita uguale soffia il libeccio di una domanda,
punge il rovaio di un dubbio eterno, un formicaio di cose andate,
di chi aspetta sempre l’inverno per desiderare una nuova estate.
Son tornate a sbocciare le strade, ideali ricami del mondo,
ci girano tronfie la figlia e la madre nel viso uguali e nel culo tondo,
in testa identiche, senza storia, sfidando tutto, senza confini,
frantumano un attimo quella boria grida di rondini e ragazzini;
come vedi tutto è consueto in questo ingorgo di vita e morte,
ma mi rattristo, io sono lieto di questa pista di voglia e sorte,
di questa rete troppo smagliata, di queste mete lì da sognare,
di questa sete mai appagata, di chi starnazza e non vuol volare.
Appassiscono piano le rose, spuntano a grappi i frutti del melo,
le nuvole in alto van silenziose negli strappi cobalto del cielo;
io sdraiato sull’erba verde fantastico piano sul mio passato
ma l’età all’improvviso disperde quel che credevo e non sono stato;
come senti tutto va liscio in questo mondo senza patemi,
in questa vita presa di striscio, di svolgimento corretto ai temi,
dei miei entusiasmi durati poco, dei tanti chiasmi filosofanti,
di storie tragiche nate per gioco troppo vicine o troppo distanti.
Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi dà indietro quelle stagioni
di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni,
gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti,
l’arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?
Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa
e c’è il sospetto che sia triviale l’affanno e l’ansimo dopo una corsa,
l’ansia volgare del giorno dopo, la fine triste della partita,
il lento scorrere senza uno scopo di questa cosa che chiami vita.

Vorrei

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Vorrei conoscer l’odore del tuo paese, camminare di casa nel tuo giardino,
respirare nell’aria sale e maggese, gli aromi della tua salvia e del rosmarino.
Vorrei che tutti gli anziani mi salutassero parlando con me del tempo o dei giorni andati,
vorrei che gli amici tuoi tutti mi parlassero come se amici fossimo sempre stati.
Vorrei incontrare le pietre, le strade, gli usci, i ciuffi di parietaria attaccati ai muri,
le strisce delle lumache nei loro gusci, capire tutti gli sguardi dietro agli scuri
e lo vorrei perché non sono quando non ci sei
e resto solo coi pensieri miei, ed io…
Vorrei con te da solo sempre viaggiare, scoprire quello che intorno c’è da scoprire
per raccontarti e poi farmi raccontare il senso d’un rabbuiarsi o del tuo gioire;
vorrei tornare nei posti dove son stato, spiegarti di quanto tutto sia poi diverso
poter farmi da te spiegare cos’è cambiato e quale sapore nuovo abbia l’universo.
Vedere di nuovo Istanbul o Barcellona o il mare di una remota spiaggia cubana
o un greppe dell’Appennino dove risuona fra gli alberi un’usata e semplice tramontana
e lo vorrei perché non sono quando non ci sei
e resto solo coi pensieri miei, ed io…
Vorrei restare per sempre in un posto solo per ascoltare il suono del tuo parlare
e guardare stupito il lancio, la grazia, il volo impliciti dentro al semplice tuo camminare
e restare in silenzio al suono della tua voce o parlare, parlare, parlare, parlarmi addosso
dimenticando il tempo troppo veloce o nascondere in due sciocchezze che son commosso.
Vorrei cantare il canto delle tue mani, giocare con te un eterno gioco proibito
che l’oggi restasse oggi senza domani o domani potesse tendere all’infinito
e lo vorrei perché non sono quando non ci sei
e resto solo coi pensieri miei, ed io…

Quattro stracci

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E guardo fuori dalla finestra e vedo quel muro solito che tu sai,
sigaretta o penna nella mia destra, simboli frivoli che non hai amato mai;
quello che ho addosso non ti è mai piaciuto, racconto e dico e ti sembro muto,
fumare e scrivere ti suona strano, meglio le mani di un artigiano
e cancellarmi è tutto quel che fai; ma io sono fiero del mio sognare,
di questo eterno mio incespicare e rido in faccia a quello che cerchi e che mai avrai.
Non sai che ci vuole scienza, ci vuol costanza, ad invecchiare senza maturità;
ma maturo o meno io ne ho abbastanza della complessa tua semplicità;
ma poi chi ha detto che tu abbia ragione, coi tuoi also sprach di maturazione
o è un’illusione pronta per l’uso, da eterna vittima d’un sopruso,
abuso d’un mondo chiuso e fatalità; ognuno vada dove vuole andare,
ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me che cos’è la libertà.
La libertà delle tue pozioni, di yoga, di erbe, psiche e di omeopatia,
di manuali contro le frustrazioni, le inibizioni che provavi qui a casa mia,
la noia data da uno non pratico, che non ha il polso di un matematico,
che coi motori non ci sa fare e che non sa neanche guidare,
un tipo perso dietro le nuvole e la poesia; ma ora scommetto che vorrai provare
quel che con me non volevi fare: fare l’amore, tirare tardi, o la fantasia.
La fantasia può portare male se non si conosce bene come domarla,
ma costa poco, val quel che vale, e nessuno ti può più impedire di adoperarla;
io se dio vuole non son tuo padre, non ho nemmeno le palle quadre,
tu hai la fantasia delle idee contorte, vai con la mente e le gambe corte
poi avrai sempre il momento giusto per sistemarla;
le vie del mondo ti sono aperte, tanto hai le spalle sempre coperte
ed avrai sempre le scuse buone per rifiutarla.
Per rifiutare sei stata un genio, sprecando il tempo a rifiutare me,
ma non c’è un alibi, non c’è rimedio, se guardo bene no, non c’è un perché;
nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d’esser puttana,
quando sei dentro vuoi esser fuori cercando sempre i passati amori
ed hai annullato tutti fuori che te, ma io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri,
quei quattro stracci in cui hai buttato l’ieri, persa a cercar per sempre quello che non c’è.

Stelle

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Ma guarda quante stelle questa sera fino alla linea curva d’orizzonte,
ellissi cieca e sorda del mistero là dietro al monte;
si fingono animali favolosi, pescatori che lanciano le reti,
re barbari o cavalli corridori lungo i pianeti
e sembrano invitarci da lontano per svelarci il mistero delle cose
o spiegarci che sempre camminiamo fra morte e rose
o confonderci tutto e ricordarci che siamo poco, che non siamo niente
e che è solo un pulsare illimitato ma indifferente.
Ma guarda quante stelle su nel cielo sparse in incalcolabile cammino;
tu credi che disegnino la traccia del destino?
E che la nostra vita resti appesa a un nastro tenue di costellazioni
per stringerci in un laccio e regalarci sogni e visioni,
tutto sia scritto in chiavi misteriose, effemeridi che guidano ogni azione,
lasciandoci soltanto il vano filtro dell’illusione
e che l’ambiguo segno dei Gemelli governi il corso della mia stagione
scontrandosi e incontrandosi nel cielo dello Scorpione?
Ma guarda quante stelle incastonate: che senso avranno mai? Che senso abbiamo?
Sembrano dirci in questa fine estate: siamo e non siamo.
E che corriamo come il Sagittario, tirando frecce a simboli bastardi,
antiche bestie, errore visionario, segni bugiardi.
C’erano ancora prima del respiro, ci saranno alla nostra dipartita,
forse fanno ballare appesa a un filo la nostra vita
e in tutto quel chiarore sterminato, dove ogni lontananza si disperde,
guardando quel silenzio smisurato l’uomo si perde.

Canzone delle colombe e del fiore

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Amore, s’io fossi aria, le tue rondini vorrei,
per guardarmele ogni minuto e farle volare negli occhi miei;
quelle rondini bianche e nere che anche mute dicono tanto:
tutta la gioia di mille sere ed un momento solo di pianto.
Amore, mai sarò stanco di bermi tutto il tuo miele;
quando ridi o quando mi parli in me si gonfiano mille vele;
quando un sogno od un tuo segreto ti fan seria e sembri rubata,
guizzan pesci tra i tuoi due fiori, rivive l’anima mia assetata.
Amore, pensa s’io avessi una torre colombaria,
per far posare le tue due colombe stanche di volare in aria;
vederle alzarsi dritte nel cielo e atterrare fra le mie mani
per carezzarle dentro ai miei oggi e baciarle fino a domani.
Amore, nel mio giardino vorrei fiorisse la tua rosa,
perché l’anima mia si perda dove il corpo rinasce e riposa;
quella rosa di primavera sempre rorida di rugiada,
misteriosa come la sera balenante come una spada.
Amore colomba fiore, amore fragile e forte,
sfrontatezza e pudore, compagna di gioia e sorte,
sapore amaro e dolcezza, con l’arcobaleno fra le dita,
vorrei perdermi nel tuo respiro, vorrei offrirti questa mia vita.

Il caduto

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Io nato Primo di nome e di cinque fratelli,
uomo di bosco e di fiume, lavoro e di povertà,
ma uomo sereno di dentro, come i pesci e gli uccelli,
che con me dividevano il cielo, l’acqua e la libertà;
perché sono in prigione per sempre, qui in questa pianura,
dove orizzonte rincorre da sempre un uguale orizzonte,
dove un vento incessante mi soffia continua paura,
dove è impossibile scorgere il profilo di un monte?
E se d’inverno mi copre la neve gelata,
non è quella solita in cui affondava il mio passo,
forte e sicuro, braccando la lieve pestata
che lascia la volpe o l’impronta più greve del tasso.
Ho cancellato il ricordo, e perché son caduto;
rammento stagioni in cui dietro ad un sole non chiaro
veniva improvviso quel freddo totale, assoluto,
e infine lamenti poi grida e bestemmie e uno sparo.
Guarda la guerra che beffa, che scherzo puerile,
io che non mi ero mai spinto in un lungo cammino,
ho visto quel poco di mondo da dietro un fucile,
ho visto altra gente soltanto da dietro a un mirino.
E siamo in tanti coperti da neve gelata,
non c’è più razza o divisa, ma solo l’inverno,
e quest’estate bastarda dal vento spazzata,
e solo noi, solo noi che siam morti in eterno.
Io che che guardavo la vita con calmo coraggio
cosa darei per guardare gli odori della mia montagna,
vedere le foglie del cerro, gli intrichi del faggio,
scoprire di nuovo dal riccio il miracolo della castagna.

Cirano

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Venite pure avanti, voi con il naso corto,
signori imbellettati, io più non vi sopporto!
Infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio
perché con questa spada vi uccido quando voglio.
Venite pure avanti poeti sgangherati,
inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni che campate di versi senza forza,
avrete soldi e gloria ma non avete scorza;
godetevi il successo, godete finché dura,
ché il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura,
e andate chissà dove per non pagar le tasse,
col ghigno e l’ignoranza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna
però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L’arrivismo? All’amo non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco.
Facciamola finita, venite tutti avanti,
nuovi protagonisti, politici rampanti;
venite portaborse, ruffiani e mezze calze,
feroci conduttori di trasmissioni false,
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte;
coraggio liberisti, buttate giù le carte,
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese
in questo benedetto assurdo bel Paese.
Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato,
spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco.
Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz’ora da sempre mi precede
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore;
non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d’essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo,
ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo ma sono triste,
perché Rossana è bella, siamo così diversi;
a parlarle non riesco, le parlerò coi versi.
Venite gente vuota, facciamola finita:
voi preti che vendete a tutti un’altra vita;
se c’è come voi dite un Dio nell’infinito
guardatevi nel cuore, l’avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso
che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti,
per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco.
Io tocco i miei nemici col naso e con la spada
ma in questa vita oggi non trovo più la strada,
non voglio rassegnarmi ad essere cattivo
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo;
dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un’ombra e tu, Rossana, il sole;
ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perché ormai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo Cirano.

Il matto

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Mi dicevano il matto perché prendevo la vita
da giullare, da pazzo, con un’allegria infinita.
D’altra parte è assai meglio, dentro questa tragedia,
ridersi addosso, non piangere, e voltarla in commedia.
Quando mi hanno chiamato per la guerra, dicevo:
Be’, è naia, soldato! e ridevo, ridevo.
Mi han marchiato e tosato, mi hanno dato un fucile,
rancio immondo, ma io allegro, ridevo da morire.
Facevo scherzi, mattane, naturalmente ai fanti,
agli osti e alle puttane ma non risparmiavo i santi.
E un giorno me l’han giocata, mi han ricambiato il favore
e dal fucile mi han tolto l’intero caricatore.
Mi son trovato il nemico di fronte, e abbiamo sparato,
chiaramente io a vuoto lui invece mi ha centrato.
Perché quegi occhi stupiti? Perché mentre cadevo,
per terra, la morte addosso, io ridevo ridevo?
Ora qui non sto male, ora qui mi consolo,
ma non mi sembra normale ridere sempre da solo.

I fichi

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La canzone, onestamente, come testo non è un granché. Però ci ho messo tutta una grande ouverture musicale. Quindi attendete, vado ad eseguire l’ouverture. L’ouverture mi è riuscita un… un sessanta per cento, che non è una brutta percentuale, credetemi… no, sì, eeh, no no. È che io a questo punto avrei dovuto fare un do, ma il do non è una nota facile, il do è una nota… Beethoven che era Beethoven il do ci prendeva un… un ottanta per cento delle volte, anzi ha scritto una «Decima sinfonia senza do perché mi fa rabbia», ma la società «Gli amici delle sette note» non gli ha mai permesso di pubblicare. E il tempo di questa canzone è un tempo, il tempo è un tempo… carina questa: il tempo è un tempo, ma, il tempo un tempo era… Ah, un momento, bisogna spiegare a quelli di sotto che il microfono che dovrebbe essere qui è qui e il microfono che dovrebbe essere qui è qui. Il fatto che qui e qui in italiano si dica nello stesso modo complica orrendamente le cose però… va beh, insomma, il tempo un tempo era… un valzer moderato, ma col passar del tempo, e te dai… ha acquistato una precisa coscienza politica ed è diventato un valzer decisamente di sinistra. Ah ah aah! Aah! Virtuosismi? Ma vorrei l’applauso. Temo che questa chitarra sia orrendamente scordata, ma il pezzo è giusto con la chitarra orrendamente scordata. La canzone potrebbe ricordare a qualcuno…, la canzone si chiama «I fichi», potrebbe ricordare a qualcuno «I crauti». «I crauti» è una canzone scritta tanti anni fa, una canzone… si fa per dire, che faceva:

Io non capisco la gente

eh te fai sì sì con la testa, la conosci! È la tua canzone preferita. Te a un certo punto vai col tuo amoroso e dici «Senti, suonano i crauti: è la nostra canzone!» No, un momento c’è della gente così, eh!

Io non capisco la gente

questo è il valzer con una precisa coscienza politica, però non è, cioè, c’è un…, è, è, maes…, lei mi dica… ha una…

che non ci piacciono i crauti.

Ecco, la mia canzone è molto diversa, molto diver… Fa:
Io non capisco la gente

eh lo so, va beh, d’altra parte…

che non ci piacciono i fichi.

Già diversa! Già diversa!

l’han detto persino gli antichi
sì ai fichi ed abbasso i bignè.

Virtuosismo. C’è questo sol che è… è un mi bemolle, comunque… Lo abbassiamo? Lei cosa dice? Lo abbassiamo? Ma sì… Ma sì… Seconda strofa nella quale si va a spiegare l’ontologia del fico, ovvero la vera, reale essenza del fico. Che non, non è da tutti, insomma, per il fico, intendo. Notate che quando faccio il virtuosismo mi abbasso con la spalla sinistra perché mi viene… più facile. Peccato che nel disco non lo vedranno che mi abbasso con la spalla sinistra, ma… Eh? Cosa viene adesso?

I fichi son quella cosa
pregevoli assieme al prosciutto
mangiabili in parte o del tutto
da soli o sia pure in alcun.

A few body, come dicono gli anglosassoni.

Mangiabili in piedi o a Verona,
a letto, al mattino, in stazione,
dovunque dà gioia… il… il melone

Ah ah! Questa è un’altra canzone.

Mangiabili in verno o d’estate
e fino all’autunno inoltrato,
ma allora ci ha il nome cambiato
e si chiamano marron-glacés.

Quando uno è bravo…

Ma quando è maturo e sugoso,
è allora il momento del fico
ch’è buono sì ché non vi dico.
Oh rabbia, che ormai l’ho già dett!

La canzone… vi sarete resi conto che è di grande serietà e di grande impegno. È una canzone scientifico-morale e in questa strofa io vado a spiegare… le prove scientifiche della beneficità del fico per gli esseri umani. Vai! Ehm, l’ho detto prima di Beethoven che non… Se qualcuno mi tenesse un… dito qua…

Il fico fa bene alla vista.

Stupiti! Vi vedo stupiti.

gli uccelli ne mangian quintali
e quasi nessuno ha gli occhiali
ma questo è un segreto di poc.
Ma questo è soltanto uno scherzo
di quello che giova in salute:
su in Svezia che han larghe vedute

anche sui 30-40cm…

i fichi la mutua li dà.

Eh? Un applauso, veh, per cortesia! Se ce ne fosse bisogno, successive prove della beneficità del fico in natura:

Te prova ad andar sotto a un camions
oppure va’ sotto a un tranvai
poi vai sotto a un fico e vedrai
di quanto starai tu più ben.

Controindicazioni.

Ma attenti a non far come quello
che in preda a pensieri lubrichi
andò sotto a un camions di fichi
non puro può far molto mal.

Con… con grande vostro e mio dolore, soprattutto vostro, ma anche mio, siamo giunti al finale che vi spiegherà la parte direi… ehm… la parte «direi» della canzone.

Ma ormai sono giunto alla fine
e vi ho visto d’accordo e contenti
fra un fico e un cazzotto nei denti
ognuno ormai sceglier saprà.

Non è tanto per me, quanto per i fichi

Stagioni -2002-

Addio (Intro) [0’53»]
Stagioni [6’08»]
Autunno [4’55»]
E un giorno… [5’25»]
Ho ancora la forza [3’24»]
Inverno ’60 [5’17»]
Don Chisciotte [6’00»]
Primavera ’59 [5’59»]
Addio [4’10»]

Addio (Intro)

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Nell’anno ’99 di nostra vita
io, Francesco Guccini, eterno studente
perché la materia di studio sarebbe infinita
e soprattutto perché so di non sapere niente,
io, chierico vagante, bandito di strada,
io, non artista, solo piccolo baccelliere,
perché, per colpa d’altri, vada come vada,
a volte mi vergogno di fare il mio mestiere,

io dico addio!

Stagioni

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Quanto tempo è passato da quel giorno d’autunno
di un ottobre avanzato, con il cielo già bruno,
fra sessioni di esami, giorni persi in pigrizia,
giovanili ciarpami, arrivò la notizia…

Ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto,
sapere a brutto grugno che Guevara era morto:
in quel giorno d’ottobre, in terra boliviana
era tradito e perso Ernesto «Che» Guevara…

Si offuscarono i libri, si rabbuiò la stanza,
perché con lui era morta una nostra speranza:
erano gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni,
erano i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni…

«Che» Guevara era morto, ma ognuno lo credeva
che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva…
«Che» Guevara era morto, ma ognuno lo credeva
che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva…

Passarono stagioni, ma continuammo ancora
a mangiare illusioni e verità a ogni ora,
anni di ogni scoperta, anni senza rimpianti:
«Forza Compagni, all’erta, si deve andare avanti!»

E avanti andammo sempre con le nostre bandiere
e intonandole tutte quelle nostre chimere…
In un giorno d’ottobre, in terra boliviana,
con cento colpi è morto Ernesto «Che» Guevara…

Il terzo mondo piange, ognuno adesso sa
che «Che» Guevara è morto, mai più ritornerà,
ma qualcosa cambiava, finirono i giorni di quelle emozioni
e rialzaron la testa i nemici di sempre contro le ribellioni…

«Che» Guevara era morto e ognuno lo capiva
che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva…
«Che» Guevara era morto e ognuno lo capiva
che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva…

E qualcosa negli anni terminò per davvero
cozzando contro gli inganni del vivere giornaliero:
i Compagni di un giorno o partiti o venduti,
sembra si giri attorno a pochi sopravvissuti…

Proprio per questo ora io vorrei ascoltare
una voce che ancora incominci a cantare:
In un giorno d’ottobre, in terra boliviana,
con cento colpi è morto Ernesto «Che» Guevara…

Il terzo mondo piange, ognuno adesso sa
che «Che» Guevara è morto, forse non tornerà,
ma voi reazionari tremate, non sono finite le rivoluzioni
e voi, a decine, che usate parole diverse, le stesse prigioni,

da qualche parte un giorno, dove non si saprà,
dove non l’aspettate, il «Che» ritornerà,
da qualche parte un giorno, dove non si saprà,
dove non l’aspettate, il «Che» ritornerà!

Autunno

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Un’oca che guazza nel fango,
un cane che abbaia a comando,
la pioggia che cade e non cade
le nebbie striscianti che svelano e velano strade…

Profilo degli alberi secchi,
spezzarsi scrosciante di stecchi,
sul monte, ogni tanto, gli spari
e cadono urlando di morte gli animali ignari…

L’autunno ti fa sonnolento,
la luce del giorno è un momento
che irrompe e veloce è svanita:
metafora lucida di quello che è la nostra vita…

L’autunno che sfuma i contorni
consuma in un giorno più giorni,
ti sembra sia un gioco indolente,
ma rapido brucia giornate che appaiono lente…

Odori di fumo e foschia,
fanghiglia di periferia,
distese di foglia marcita
che cade in silenzio lasciando per sempre la vita…

Rinchiudersi in casa a aspettare
qualcuno o qualcosa da fare,
qualcosa che mai si farà,
qualcuno che sai non esiste e che non suonerà…

Rinchiudersi in casa a contare
le ore che fai scivolare
pensando confuso al mistero
dei tanti «io sarò» diventati per dempre «io ero»…

Rinchiudersi in casa a guardare
un libro, una foto, un giornale
e ignorando quel rodere sordo
che cambia «io faccio» e lo fa diventare «io ricordo»…

La notte è di colpo calata,
c’è un’oscurità perforata
da un’auto che passa veloce
lasciando soltanto al silenzio la buia sua voce…

Rumore che appare e scompare,
immagine crepuscolare
del correre tuo senza scopo,
del tempo che gioca con te come il gatto col topo…

Le storie credute importanti
si sbriciolano in pochi istanti:
figure e impressioni passate
si fanno lontane e lontana così è la tua estate…

E vesti la notte incombente
lasciando vagare la mente
al niente temuto e aspettato
sapendo che questo è il tuo autunno…
che adesso è arrivato…

E un giorno…

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E un giorno ti svegli stupita e di colpo ti accorgi
che non sono più quei fantastici giorni all’asilo
di giochi, di amici e se ti guardi attorno non scorgi
le cose consuete, ma un vago e indistinto profilo…

E un giorno cammini per strada e ad un tratto comprendi
che non sei la stessa che andava al mattino alla scuola,
che il mondo là fu

Ritratti 2004

Odysseus [4’29»]
Una canzone [4’39»]
Canzone per il Che [5’14»]
Piazza Alimonda [5’53»]
Vite [5’38»]
Cristoforo Colombo [5’50»]
Certo non sai [4’28»]
La ziatta (La tieta) [5’48»]
La tua libertà [4’37»]

Odysseus

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Bisogna che lo affermi fortemente
che, certo, non appartenevo al mare
anche se Dei d’Olimpo e umana gente
mi sospinsero un giorno a navigare
e se guardavo l’isola petrosa
ulivi e armenti sopra a ogni collina
c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa
c’era l’anima mia che è contadina;
un’isola d’aratro e di frumento
senza le vele, senza pescatori,
il sudore e la terra erano argento
il vino e l’olio erano i miei ori.

Ma se tu guardi un monte che hai di faccia
senti che ti sospinge a un altro monte,
un’isola col mare che l’abbraccia
ti chiama a un’altra isola di fronte
e diedi un volto a quelle mie chimere
le navi costruii di forma ardita,
concave navi dalle vele nere
e nel mare cambiò quella mia vita
e il mare trascurato mi travolse:
seppi che il mio futuro era nel mare
con un dubbio però che non si sciolse
senza futuro era il mio navigare

Ma nel futuro trame di passato
si uniscono a brandelli di presente,
ti esalta l’acqua e il gusto del salato
brucia la mente
e ad ogni viaggio reinventarsi un mito
a ogni incontro ridisegnare il mondo
e perdersi nel gusto del proibito
sempre più in fondo

E andare in giorni bianchi come arsura,
soffio di vento e forza delle braccia,
mano al timone e sguardo nella pura
schiuma che lascia effimera una traccia;
andare nella notte che ti avvolge
scrutando delle stelle il tremolare
in alto l’Orsa è un segno che ti volge
diritta verso il nord della Polare.
E andare come spinto dal destino
verso una guerra, verso l’avventura
e tornare contro ogni vaticino
contro gli Dei e contro la paura.

E andare verso isole incantate,
verso altri amori, verso forze arcane,
compagni persi e navi naufragati;
per mesi, anni, o soltanto settimane?
La memoria confonde e dà l’oblio,
chi era Nausicaa, e dove le sirene?
Circe e Calypso perse nel brusio
di voci che non so legare assieme.
Mi sfuggono il timone, vela remo,
la frattura fra inizio ed il finire,
l’urlo dell’accecato Polifemo
ed il mio navigare per fuggire.

E fuggendo si muore e la mia morte
sento vicina quando tutto tace
sul mare, e maledico la mia sorte
non trovo pace
forse perché sono rimasto solo
ma allora non tremava la mia mano
e i remi mutai in ali al folle volo
oltre l’umano.

La vita del mare segna false rotte,
ingannevole in mare ogni tracciato,
solo leggende perse nella notte
perenne di chi un giorno mi ha cantato
donandomi però un’eterna vita
racchiusa in versi, in ritmi, in una rima,
dandomi ancora la gioia infinita
di entrare in porti sconosciuti prima.

Una canzone

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La canzone è una penna e un foglio
così fragili fra queste dita,
è quel che non è, è l’erba voglio
ma può essere complessa come la vita.
La canzone è una vaga farfalla
che vola via nell’aria leggera,
una macchia azzurra, una rosa gialla,
un respiro di vento la sera,
una lucciola accesa in un prato,
un sospiro fatto di niente
ma qualche volta se ti ha afferrato
ti rimane per sempre in mente
e la scrive gente quasi normale
ma con l’anima come un bambino
che ogni tanto si mette le ali
e con le parole gioca a rimpiattino.

La canzone è una stella filante
che qualche volta diventa cometa
una meteora di fuoco bruciante
però impalpabile come la seta.
La canzone può aprirti il cuore
con la ragione o col sentimento
fatta di pane, vino, sudore
lunga una vita, lunga un momento.
Si può cantare a voce sguaiata
quando sei in branco, per allegria
o la sussurri appena accennata
se ti circonda la malinconia
e ti ricorda quel canto muto
la donna che ha fatto innamorare
le vite che tu non hai vissuto
e quella che tu vuoi dimenticare.

La canzone è una scatola magica
spesso riempita di cose futili
ma se la intessi d’ironia tragica
ti spazza via i ritornelli inutili;
è un manifesto che puoi riempire
con cose e facce da raccontare
esili vite da rivestire
e storie minime da ripagare
fatta con sette note essenziali
e quattro accordi cuciti in croce
sopra chitarre più che normali
ed una voce che non è voce
ma con carambola lessicale
può essere un prisma di rifrazione
cristallo e pietra filosofale
svettante in aria come un falcone.

Perché può nascere da un male oscuro
che è difficile diagnosticare
fra il passato appesa e il futuro,
lì presente e pronta a scappare
e la canzone diventa un sasso
lama, martello, una polveriera
che a volte morde e colpisce basso
e a volte sventola come bandiera.
La urli allora un giorno di rabbia
la getti in faccia a chi non ti piace
un grimaldello che apre ogni gabbia
pronta ad irridere chi canta e tace.
Però alla fine è fatta di fumo
veste la stoffa delle illusioni,
nebbie, ricordi, pena, profumo:
son tutto questo le mie canzoni
son tutto questo le mie canzoni.

Canzone per il Che

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Un popolo può liberare se stesso
dalle sue gabbie di animali elettrodomestici,
ma all’avanguardia d’America
dobbiamo far dei sacrifici
verso il cammino lento della piena libertà.
E se il rivoluzionario
non trova altro riposo che la morte,
che rinunci al riposo e sopravviva
niente o nessuno lo trattenga
anche per il momento di un bacio
o per qualche calore di pelle o prebenda.

I problemi di coscienza interessano tanto
quanto la piena perfezione di un risultato;
lottiamo contro la miseria,
ma allo stesso tempo contro la sopraffazione.
Lasciate che lo dica
ma il rivoluzionario quando è vero
è guidato da un grande sentimento d’amore,
ha dei figli che non riescono a chiamarlo,
mogli che fanno parte di quel sacrificio;
suoi amici sono i compañeros della revolución.

Addio vecchi
oggi è il giorno conclusivo,
non lo cerco ma è già tutto nel mio calcolo.
Addio Fidel,
oggi è l’atto conclusivo
sotto il mio cielo
della gran patria di Bolívar,
la luna di Higueras è la luna di Playa Girón.
Sono un rivoluzionario cubano,
sono un rivoluzionario d’America.
Signor colonnello
sono Ernesto «Che» Guevara.
Mi spari,
tanto sarò utile da morto,
come da vivo.

Piazza Alimonda

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Genova, schiacciata sul mare, sembra cercare
respiro al largo, verso l’orizzonte.
Genova, repubblicana di cuore, vento di sale,
d’anima forte.
Genova che si perde in centro nei labirintici vecchi carrugi,
parole antiche e nuove sparate a colpi come da archibugi.
Genova, quella giornata di luglio, d’un caldo torrido
d’Africa nera.
Sfera di sole a piombo, rombo di gente, tesa atmosfera.
Nera o blu l’uniforme, precisi gli ordini, sudore e rabbia;
facce e scudi da Opliti, l’odio di dentro come una scabbia.
Ma poco più lontano, un pensionato ed un vecchio cane
guardavano un aeroplano che lento andava macchiando il mare;
una voce spezzava l’urlare estatico dei bambini.

Panni distesi al sole, come una beffa, dentro ai giardini.
Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo, quasi un dovere,
piacere d’incontri a grappoli, ideali identici, essere e avere,
la grande folla chiama, canti e colori, grida ed avanza,
sfida il sole implacabile, quasi incredibile passo di danza.
Genova chiusa da sbarre, Genova soffre come in prigione,
Genova marcata a vista attende un soffio di liberazione.
Dentro gli uffici uomini freddi discutono la strategia
e uomini caldi esplodono un colpo secco, morte e follia.
Si rompe il tempo e l’attimo, per un istante, resta sospeso,

appeso al buio e al niente, poi l’assurdo video ritorna acceso;
marionette si muovono, cercando alibi per quelle vite
dissipate e disperse nell’aspro odore della cordite.

Genova non sa ancora niente, lenta agonizza, fuoco e rumore,
ma come quella vita giovane spenta, Genova muore.
Per quanti giorni l’odio colpirà ancora a mani piene.
Genova risponde al porto con l’urlo alto delle sirene.
Poi tutto ricomincia come ogni giorno e chi ha la ragione,
dico nobili uomini, danno implacabile giustificazione,
come ci fosse un modo, uno soltanto, per riportare
una vita troncata, tutta una vita da immaginare.
Genova non ha scordato perché è difficile dimenticare,
c’è traffico, mare e accento danzante e vicoli da camminare.
La Lanterna impassibile guarda da secoli gli scogli e l’onda.
Ritorna come sempre, quasi normale, piazza Alimonda.

La «salvia splendens» luccica, copre un’aiuola triangolare,
viaggia il traffico solito scorrendo rapido e irregolare.
Dal bar caffè e grappini, verde un’edicola vende la vita.
Resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita.

Vite

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Mi affascina il mistero delle vite
che si dipanano lungo la scacchiera
di giorni e strade, foto scolorite
memoria di vent’anni o di una sera.
E mi coinvolge l’eterno gocciolare
e il tempo sopra il viso di un passante
e il chiedermi se nei suoi occhi appare
l’insulto di una morte o di un’amante,
la rete misteriosa dei rapporti
che lega coi suoi fili evanescenti
la giostra eterna di ragioni o torti
il rintocco scaglioso dei momenti,
il mondo visto con gli occhi asfaltati
rincorrendo il balletto delle ore
noi che sappiamo dove siamo nati
ma non sapremo mai dove si muore.

Mi piace rovistare nei ricordi
di altre persone, inverni o primavere
per perdere o trovare dei raccordi
nell’apparente caos di un rigattiere:
quadri per cui qualcuno è stato in posa,
un cannocchiale che ha guardato un punto,
un mappamondo, due bijou, una rosa,
ciarpame un tempo bello e ora consunto,
pensare chi può averli adoperati,
cercare una risposta alla sciarada
del perché sono stati abbandonati
come un cane lasciato sulla strada.
Oggetti che qualcuno ha forse amato
ora giacciono lì, senza un padrone,
senza funzione, senza storia o stato,
nell’intreccio di caso o di ragione.

E la mia vita cade in altra vita
ed io mi sento solamente un punto
lungo la retta lucida e infinita
di un meccanismo immobile e presunto.
Tu sei quelli che son venuti prima
che in parte hai conosciuto, e quelli dopo
che non conoscerai, come una rima
vibrante e bella, però senza scopo.
E’ inutile cercare una risposta,
sai che non ce ne sono e allora tenti
un bussare distratto a quella porta
che si chiuse soltanto ai sentimenti.
Non saprai e non sai.
Questo dolore che vagli fra le magli di un tuo cribro
svanisce un po’ nel contemplare un fiore
si scorda fra le pagine di un libro.

Perché non si fa a meno di altre vite
anche rubate a pagine che sfogli
oziosamente, e ambiguo le hai assorbite
da fantasmi inventati che tu spogli
rivestendoti in loro piano piano
come se ti scoprissi in uno specchio
L’Uomo a Dublino, o l’ultimo Mohicano
che ai 25 si sentiva vecchio.
E percorriamo strade non più usate
figurando chi un giorno ci passava
e scrutiamo le case abbandonate
chiedendoci che vite le abitava,
perché la nostra è sufficiente appena
ne mescoliamo inconsciamente il senso;
siamo gli attori ingenui di un palcoscenico misterioso e immenso.

Cristoforo Colombo

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È gia stanco di vagabondare sotto un cielo sfibrato
per quel regno affacciato sul mare ch’è dai Mori insidiato
e di terra ne ha avuta abbastanza, non di vele e di prua,
perché ha trovato una strada di stelle nel cielo dell’anima sua.
Se lo sente, non può più fallire, scoprirà un nuovo mondo;
quell’attesa lo lascia impaurito di toccare già il fondo.
Non gli manca il coraggio o la forza per vivere quella follia
e anche senza equipaggio, anche fosse un miraggio, ormai salperà via.

E la Spagna di spada e di croce riconquista Granada,
con chitarre gitane e flamenco fa suonare ogni strada;
Isabella è la grande regina del Guadalquivir
ma come lui è una donna convinta che il mondo non può finir lì.
Ha la mente già tesa all’impresa sull’oceano profondo,
caravelle e una ciurma ha concesso, per quel viaggio tremendo,
per cercare di un mondo lontano ed incerto che non sa se ci sia
ma è già l’alba e sul molo l’abbraccia una raffica di nostalgia.

E naviga, naviga via
verso un mondo impensabile ancora da ogni teoria.
Naviga, naviga via,
nel suo cuore la Niña, la Pinta e la Santa Maria.

È da un mese che naviga a vuoto quell’Atlantico amaro,
ma continua a puntare l’ignoto con lo sguardo corsaro;
sarà forse un’assurda battagli ma ignorare non puoi
che l’assurdo ci sfida per spingerci ad essere fieri di noi.
Quante volte ha sfidato il destino aggrappato ad un legno,
senza patria bestemmia in latino, quando il bere è l’impegno.
Per fortuna che il vino non manca e trasforma la vigliaccheria
di una ciurma ribelle e già stanca, in un’isola di compagnia.

E naviga, naviga via,
sulla prua che s’impenna violenta lasciando una scia.
Naviga, naviga via,
nel suo cuore la Niña, la Pinta e la Santa Maria.

Non si era sentito mai solo come in quel momento
ma ha imparato dal vivere in mare a non darsi per vinto;
andrà a sbattere in quell’orizzonte, se una terra non c’è.
Grida: «Fuori, sul ponte, compagni! Dovete fidarvi di me!»
Anche se non accenna a spezzarsi quel tramonto di vetro,
ma li aspettano fame e rimorso se tornassero indietro,
proprio adesso che manca un respiro per giungere alla verità,
a quel mondo che ha forse per faro una fiaccola di libertà.

E naviga, naviga là
come prima di nascere l’anima naviga già.
Naviga, naviga ma
quell’oceano è di sogni e di sabbia
poi si alza un sipario di nebbia
e come un circo illusorio s’illumina l’America.

Dove il sogno dell’oro ha creato
mendicanti di un senso
che galleggiano vacui nel vuoto
affamati d’immenso.
Là babeliche torri in cristallo
già più alte del cielo
fan subire al tuo cuore uno stallo
come a un Icaro in volo,
dove da una prigione a una luna d’amianto
«l’uomo morto cammina»
dove il Giorno del Ringraziamento
il tacchino in cucina
e mentre sciami assordanti d’aerei
circondano di ragnatele
quell’inutile America amara
leva l’ancora e alza le vele.

E naviga, naviga via
più lontano possibile
da quell’assordante bugia
naviga, naviga via,
nel suo cuore la Niña, la Pinta e la Santa Maria.

Certo non sai

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Certo non sai quanto sei dolce e bela quando dormi
coi tuoi capelli sparsi e abbandonati sul cuscino
neri e lucenti, come degli stormi
di corvi in volo chiaro del mattino.
Certo non so che cosa puoi sognare quando sogni
e appare solo appena un lieve affanno nel respiro
che ti esce piano e si mescola coi suoni
di questa notte che si consuma in giro.
E sulla tua fronte gocce di sudore;
io vorrei asciugarle, io vorrei parlarti,
dirti cose vane ma c’è in me il timore
di spezzarti il sonno, forse di svegliarti.
Forse non sai quando sia felice nel vederti
addormentata e persa accanto a me, stesa vicino;
quanto sia bello il gioco dell’averti
in sogno verso chissà quale destino.

Certo non sai quanto mi commuovi quando dici
parole strane e quasi senza senso a mezza voce,
forse ricordi di attimi felici
persi in un atomo onirico veloce.
Certo non so con cosa o chi sorride quel sorriso;
dicon con gli angeli ma il nostro cielo è quello umano,
un lampo breve che dà luce al viso
accarezzato da questa mia mano.
Questa breve notte lenta si frantuma
ed il nuovo giorno piano sta arrivando,
già sull’est albeggia, non c’è più la luna;
sveglia ti alzi e chiedi: “Cosa stai guardando?”
Forse non sai quando di sonno e di notte sei bagnata
quanto ti ami e quanto siano vuote le parole;
chiedo: “Che sogni ti hanno accompagnata?”
e fuori il giorno esplode al nuovo sole.

La ziatta (La tieta)

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A la desterà al veint
con un colp al persian
l’è acsè lèrgh al sòo let
e i linzòo fradd e grand
tòt dò i oc’ mez e srèe
zercherà n’ètra man
sèinza catèr nisun
come aièr, come edman
Al so stèr da per lèe
l’è un sò amigh da tant’an
ch’a l’ ch’gnass tòtt i sòo quèl
fin al pighi dla man;
la scultarà al gnulèr
d’un gat vec’ e castrèe
ch’a gh’ dòrm inzèmma a i znoc
d’invèren tòtt al dè.
Un breviari apugièe
in vatta a la tulatta
e un gaz d’acqua trincèe
quand a s’lèva la ziatta

Un spec’ vec’ e incrinèe
a gh’arcurdarà pian
come al tiemp l’è pasèe
come in vulèe via i an,
e gl’insaggni dl’etèe
per al stridi i s’ sèn pèrs,
quanti rughi ch’a gh’è
e i oc’ come i èn divèrs.
L’a gh’ butarà un suris
la purtinèra ed ca’
per l’urgói cg’ a gh’la lèe
perché a gh’ fa bèin i fat;
tòtt i dè fèr l’istass
ciapèr al filibùs
per badèr ai tragatt
d’un avuchèe nèe stóff,
cun al quèl an andrèe
l’aviva fat la “stratta”
ma tant tèimp l’è pasèe
ch’a n s’arcorda la ziatta.

Lèe ch’l’ha sèimpr in piò un piat
quand ariva Nadèl,
lèe ch’la ‘n vòl mai nisun
se un dè, a chès, l’a s’ sèint mèl,
lèe ch’l’a ‘n gh’ha gnanca un fióo
sol quall ed sóo fradel,
lèe ch’l dis: “L’a ‘n va mel!”
Ch’l’a dis: “A fagh tant bè!”
E la dmanga del Pèlmi
la cumprarà a sòo anvod
un bel ram longh d’uliv
e un pèr ed calzatt nóv
e po’ in cesa tótt dóo
i faran come al pret
e i pregherai Gesó
ch’a l’va a Gerusalem;
po’ a gh’ darà soquant franch
de mattr’ind ‘na casatta
perché a s’ dèv risparmièr
com la fa lèe, ziatta.

E un dè a s’gh’ha da murir
com’ piò o meno i fan tótt,
cun ‘na frèva da gnint
l’andrà in cal póst tant brótt;
l’avrà bele paghe
un prèt ch’a s’sèint a póst,
la casa, al funerèl
e la Massa di mort,
E i fior ch’i andrai andrèe
al sóo trèst suplimèint
i èn cal cosi che pass
a l’ se scorda la zèint;
a gh’ resterà po’ i fior
e i drap negher e zal
e dedrèe un vec’ amigh
scuvèrt un mumèint fa
e un santèin a l’ dirà
ch’l’è morta n’ètra sciatta;
ch’l’arpóunsa in pès, amen,
e scurdaramm la ziatta.

La tua libertà

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Oltre le mura
della città
un orizzonte insegue un orizzonte;
a un’autostrada, un’altra seguirà,
gli spazi sono fatti per andare;
la tua libertà,
se vuoi, la puoi trovare.
E un uomo saggio
regole farà,
una prigione fatta di parole;
i carcerieri
di una società
ti impediranno di cercare il sole;
la tua libertà,
se vuoi, la puoi avere.

Fossi un uccello
alto nel cielo
potrei volare senza aver padroni;
se fossi un fiume
potrei andare
rompendo gli argini nelle mie alluvioni

E boschi e boschi
cerco attorno a me
dov’è la terra che non ha barriere?
dov’è quel vento
che ci spingerà
come le vele o le bandiere;
la tua libertà
se vuoi la puoi avere.
Fossi un uccello
alto nel cielo
potrei volare senza aver padroni;
se fossi un fiume
potrei andare
rompendo gli argini nelle mie alluvioni

Ma sono un uomo
uno fra milioni
e come gli altri ho il peso della vita
e la mia strada
lungo le stagioni
può essere breve, ma può essere infinita;
la tua libertà
cercala, che si è smarrita,
cercala, che si è smarrita.

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